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Savinio ha paura dei fiori, forse non li ha mai osservati, dipinge fiori inesistenti cresciuti in un orto di un "naturalismo spettrale"
Nella produzione di Alberto Savinio i fiori ricorrono raramente. I pochi esempi noti si situano (assieme a pochissime riprese successive) negli anni parigini attorno al 1930, i più fecondi e produttivi per l'artista.
Questo dipinto, insieme ad altri due dello stesso soggetto floreale potrebbe essere stato esposto in una mostra del 1931 presso la Galerie Jeanne Castel a Parigi. Mancano prove documentarie certe, ma da una recensione dell'epoca sappiamo che l'esposizione era dedicata al tema dei "nudi" e dei "fiori" (cfr. P. Vivarelli, Alberto Savinio. Catalogo Generale, Milano 1996, p. 111). Di questi tre dipinti del 1930-31, quello che presentiamo è certamente quello che meglio testimonia l'originalità della ricerca di Savinio. Negli altri due (identificati sul citato catalogo generale dell'artista dai numeri 1930-31.3 e 1930-1931.4) i fiori conservano un aspetto 'realistico', o almeno i loro petali; in questo dipinto invece la stilizzazione del mazzo è fortissima e i fiori sono quasi irriconoscibili, ridotti a oggetti inquietanti, rigidi e serpiformi.
L'aspetto però che meglio dimostra la tensione fortissima tra innovazione e rapporto col passato, tra realismo (ad esempio nella rappresentazione del vaso) e potente carica surrealista è la struttura compositiva. Nella plurisecolare tradizione delle nature morte di fiori, esistono numerosi esempi di vasi posati su un balcone aperto sul paesaggio. In questo caso però l'architettura è scossa da un terremoto interiore, i piani diventano obliqui tanto che la perfetta verticalità del vaso non è giustificata dal suo appoggio, creando così un enigma spaziale. I contorni del dipinto sono lasciati volutamente non finiti, riportando la nostra attenzione sul fatto che siamo davanti non a una scena reale ma a una finzione artistica, espediente a lungo ripreso da molti altri artisti nel corso del secolo. Questo dipinto gode di una eccezionale profondità illusoria riaffermando la dialettica tra spazi interni (chiusi) ed esterni (aperti e senza fine) che ricorre nelle opere più riuscite di Savinio. L'apertura sul paesaggio ha però poco a che fare coi panorami minuziosamente descritti che si spalancano dietro i vasi dei pittori olandesi e fiamminghi: il mare qui è solo evocato, ed è scelto per il valore primordiale dei riferimenti simbolici cui è associato: il viaggio, gli orizzonti illimitati, il movimento incessante, la partenza e il ritorno, il rischio, l'avventura.
Gran parte della superficie del dipinto è occupato dalla pesante tenda scostata. Vero pezzo di bravura pittorica e coloristica, questo oggetto ha una straordinaria e illusoria presenza fisica ma soprattutto, come qualsiasi oggetto che si opponga alla penetrazione del nostro sguardo, crea una sensazione di disturbo, limitando nella parte sinistra del dipinto la nostra visione al primissimo piano e negando l'accesso alla profondità e allo spazio retrostante.
Nella produzione di Alberto Savinio i fiori ricorrono raramente. I pochi esempi noti si situano (assieme a pochissime riprese successive) negli anni parigini attorno al 1930, i più fecondi e produttivi per l'artista.
Questo dipinto, insieme ad altri due dello stesso soggetto floreale potrebbe essere stato esposto in una mostra del 1931 presso la Galerie Jeanne Castel a Parigi. Mancano prove documentarie certe, ma da una recensione dell'epoca sappiamo che l'esposizione era dedicata al tema dei "nudi" e dei "fiori" (cfr. P. Vivarelli, Alberto Savinio. Catalogo Generale, Milano 1996, p. 111). Di questi tre dipinti del 1930-31, quello che presentiamo è certamente quello che meglio testimonia l'originalità della ricerca di Savinio. Negli altri due (identificati sul citato catalogo generale dell'artista dai numeri 1930-31.3 e 1930-1931.4) i fiori conservano un aspetto 'realistico', o almeno i loro petali; in questo dipinto invece la stilizzazione del mazzo è fortissima e i fiori sono quasi irriconoscibili, ridotti a oggetti inquietanti, rigidi e serpiformi.
L'aspetto però che meglio dimostra la tensione fortissima tra innovazione e rapporto col passato, tra realismo (ad esempio nella rappresentazione del vaso) e potente carica surrealista è la struttura compositiva. Nella plurisecolare tradizione delle nature morte di fiori, esistono numerosi esempi di vasi posati su un balcone aperto sul paesaggio. In questo caso però l'architettura è scossa da un terremoto interiore, i piani diventano obliqui tanto che la perfetta verticalità del vaso non è giustificata dal suo appoggio, creando così un enigma spaziale. I contorni del dipinto sono lasciati volutamente non finiti, riportando la nostra attenzione sul fatto che siamo davanti non a una scena reale ma a una finzione artistica, espediente a lungo ripreso da molti altri artisti nel corso del secolo. Questo dipinto gode di una eccezionale profondità illusoria riaffermando la dialettica tra spazi interni (chiusi) ed esterni (aperti e senza fine) che ricorre nelle opere più riuscite di Savinio. L'apertura sul paesaggio ha però poco a che fare coi panorami minuziosamente descritti che si spalancano dietro i vasi dei pittori olandesi e fiamminghi: il mare qui è solo evocato, ed è scelto per il valore primordiale dei riferimenti simbolici cui è associato: il viaggio, gli orizzonti illimitati, il movimento incessante, la partenza e il ritorno, il rischio, l'avventura.
Gran parte della superficie del dipinto è occupato dalla pesante tenda scostata. Vero pezzo di bravura pittorica e coloristica, questo oggetto ha una straordinaria e illusoria presenza fisica ma soprattutto, come qualsiasi oggetto che si opponga alla penetrazione del nostro sguardo, crea una sensazione di disturbo, limitando nella parte sinistra del dipinto la nostra visione al primissimo piano e negando l'accesso alla profondità e allo spazio retrostante.